"Sono io" di Martina Caffo - Letteratura Alternativa

“Sono io” di Martina Caffo

TUMP! TUMP! TUMP! Siamo appena al briefing e il mio cuore già vuole schizzare fuori dall’emozione con l’adrenalina che scorre impetuosa. Ogni volta è così. Quando sto per fare qualcosa d’importante per me – e questa volta anche un po’ pericoloso – il mio cuore sobbalza, non riesco a trattenerlo. TUMP! TUMP! TUMP! “Sarà un’immersione diversa dalle solite questa, sarà un’immersione stazionaria nel senso che stazionerete sul pianoro e dovrete stare fermi, assolutamente immobili. Vi voglio inermi come madrepore, innaturali statici polipi mimetizzati con la parete. Al di là di essa un primo salto nel blu di 500 metri e subito dopo giù fino a 1500. Dovete stare molto attenti e seguire pedissequamente le mie indicazioni” conclude la poco rassicurante voce della guida PADI. Ci prepariamo, il solito rituale quasi magico ed ipnotico: mutino, pesi, jacket, erogatore, bombole, pinne e maschera. Tutto pronto, dalla barca giunta sul luogo della secca iniziamo a scendere. TUMP! TUMP! TUMP! Il mio cuore non accenna a calmarsi, tanta è l’emozione. Tra poco sarò giù, in mezzo a loro, le creature animali che amo di più. Da sempre. Scendiamo uno alla volta, diligenti come bambini in attesa del premio per aver studiato bene la lezione, lungo la cima fino a raggiungere la superficie sabbiosa a 21 metri di profondità e lì uno ad uno ci schieriamo contro la parete di roccia oltre la quale il blu infinito sembra una grande bocca pronta a divorarci come in un portale temporale verso universi paralleli. I gesti rallentati dall’acqua limpida, le bolle d’aria che salendo accarezzano i nostri volti creando originali acconciature alle donne coi capelli lunghi, il rumore ritmico e quasi metallico dei respiratori creano un’atmosfera irreale ma lo spettacolo deve ancora cominciare. Come soldatini in meditazione stiamo uno accanto all’altro a gambe incrociate quasi adagiati sulla sabbia bianca che sfuma dalle nostre pinne colorate in piccoli vortici e alchemici disegni come spore di funghi aquatici. Ad un tratto le vediamo arrivare: sono 20 femmine di squalo grigio di scogliera – Carcharinus Perezi – che vanno dal metro e mezzo ai due metri e settanta centimetri. TUMP! TUMP! TUMP! Il mio cuore batte ancora più forte, un sogno che si avvera, sto per vedere da vicino i miei amati squali. Eccole sono possenti, si muovono sinuose, silenziose, scivolano agili come fantasmi tra gli scogli e i coralli. Si vestono di alghe che le sfiorano, ci scrutano a distanza di sicurezza. Macchine perfette da circa 400 milioni di anni sono le regine incontrastate dei mari. Ad un tratto la guida mi tira fuori dalla coorte dei soldatini afferrandomi per un braccio con tanta energia che devo trattenere la maschera volenterosa di sfilarsi lasciandomi gli occhi e il naso nudi ed indifesi. Un attimo di panico! Ho sempre odiato l’esercizio della svestizione della maschera – così protettiva – durante i corsi di brevetto. Togli la maschera, rimetti la maschera soffiando dentro per liberarla dal po’ di mare catturato e ogni volta mi accade di sentire una sorta di corrente elettrica risalire dalle narici piene d’acqua dritta fino al centro della fronte, al terzo occhio, annebbiandolo. Ma torniamo al “gentile” richiamo della guida: una volta assicurata al volto la maschera mi accorgo di essere stata condotta al centro del pianoro dove sento prendere la mia mano e farla afferrare un secchio bianco. Mi invita ad aprirlo: dentro scarti di pesci sanguinolenti. Comincia a battere con la torcia sul bordo la guida e TUMP! TUMP! TUMP! TUMP! TUMP! TUMP! Non capisco più se è il mio cuore impazzito o il suo battere sul secchio a creare un’incalzante afro-danza nelle mie tempie e nel mio petto. Non ho il tempo di realizzare che eccola, la nube di pinne caudali e dorsali, di occhi neri ghiacciati e musi aguzzi si avventa sul pasto abbandonato a terra giusto un attimo prima dello scatenarsi della danza tribale. Sono ipnotizzata, incantata, quasi incapace di continuare a respirare nell’erogatore. Sono lì, vicino a me, posso quasi toccarle, distinguo le fessure branchiali, la linea di pori che convoglia le scariche elettriche dell’acqua nelle ampolle del Lorenzini rendendo questi pesci sofisticati sonar, vedo il bagliore dei denti bianchi nel riflesso del sole che qui a Roatan penetra fino oltre i venticinque metri di profondità. E’ uno spettacolo delirante per gli occhi e l’anima ma sta giungendo alla fine. L’ultima femmina, la più avida e goliardica si dimena ancora col secchio vuoto infilato sul muso nel vano tentativo di racimolare un estremo distratto brandello di pesce. La guida fa cenno di risalire, io la ignoro pur di rimanere ancora qualche istante con lei che liberatasi dall’inusuale corona, si dilegua nel blu regalandomi un ultimo flessuoso colpo di coda degno delle passerelle di alta moda parigina. Mi sento di nuovo strattonare. C’è da risalire, questa volta ubbidisco. Lo sguardo ancora rivolto alla grande bocca blu spalancata dietro la roccia dove lei e le sue sorelle sono sparite poco prima e dove io ancora mi perdo sognante. Lungo la cima eseguo la tappa di sicurezza obbligatoria prima di tornare in superficie, poi affioro. Il sole abbaglia il mio sguardo ancora inebriato del mio alter ego marino e ormai libero dalla maschera. Fuori dall’acqua mi ha sempre dato fastidio quello scomodo schermo graduato, ma lì sotto, nel mio elemento naturale, pur indossando quell’ingombrante paio di occhiali sono sempre e completamente priva di maschere. Lì nel blu sono solo respiro e battito di cuore. Sono pura emozione e pura essenza, sono un attimo espanso della mia eternità. Sono lì. Sono qui. Sono ovunque e sempre. Sono io.

“Sono io” di Martina Caffo – autrice del libro “Con lo zucchero in bocca” pubblicato con LA Edizioni nel 2020

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